venerdì, gennaio 16, 2015

L'errore comunicativo del Papa

Applicando il principio di carità ermeneutica, si può ipotizzare - e io lo sostengo - che papa Francesco, di solito grande comunicatore, sia incorso stavolta in un errore di comunicazione per eccesso di confidenza.
Voleva esemplificare il concetto che non si devono offendere le religioni, che la libertà di espressione non deve consentire ciò - tesi rispettabile ma discutibile, soprattutto quando riferita alla satira - e ha pensato a un esempio facile da capire per tutti e in grado di lanciare qualche segnale di dialogo alle religioni più intolleranti.
Però ha voluto aggiungerci un ingrediente di umanizzazione di se stesso per renderlo ancora più efficace. E qui è avvenuto il corto circuito con il messaggio di Cristo, che professa il «porgi l'altra guancia» e bandisce ogni atto violento.
In sostanza, secondo me, il papa voleva dire: occhio alla libertà di offesa (delle religioni o quant'altro) perché quando si offende qualcuno la reazione dell'offeso c'è da aspettarsela, è naturale (per quanto magari non giusta e raccomandabile), può venire istintiva a chiunque, anche a brave persone come il papa.
Questa penso fosse la sua intenzione. Non voleva dire che è giusto reagire con un pugno (o in qualunque altro modo sopra le righe o scorretto), ma che è istintivo farlo (e quindi un peccato minore), per reazione a chi ti offende.
Tuttavia il cortocircuito c'è stato, perché mettendo nell'esempio se stesso, il simbolo incarnato del messaggio cattolico, ha finito per far credere che la reazione col pugno fosse da intendere come giusta, raccomandabile, insomma un dover essere. Ma questo è in contrasto con tante parti del Vangelo.
Chiarito ciò, il truista è e resta un ammiratore, per quanto da posizione ormai esterna e sostanzialmente agnostica, di papa Francesco, un grande innovatore della chiesa cattolica.

Lorenzo Sandiford


Papa Francesco: «se dici una parolaccia su mia madre, ti devi aspettare un pugno»

domenica, agosto 25, 2013

La salute prima di tutto? Dipende

"La salute è la cosa più importante" si sente ripetere spesso. Ma è davvero così? Non proprio. In realtà dipende dal punto di vista e dall'accezione di "salute" che si ha in mente.
Se ci si riferisce infatti al grado di salute minimo indispensabile alla sopravvivenza, allora è ovviamente vero che esso viene prima di tutto. Se però si ha in mente un livello più alto di buona condizione psicofisica - diciamo quello che si raggiunge lottando contro tutti gli acciacchi che possono colpire l'organismo e che la medicina standard è in grado di curare -, allora la salute non sta più sempre al primo posto, cedendo frequentemente il passo al denaro.
A volte, per chi non è economicamente benestante, può essere più ragionevole abbassare le pretese in materia di salute, rinunciando ad esempio a un po' di benessere fisico, pur di preservare quel tanto di soldi necessari a garantire un tenore di vita più allegro e sereno, nonché a ripararsi da eventuali rischi futuri.
Insomma, in certi casi i soldi sono ancora più importanti della salute. Entro certi limiti, è meglio vivere un po' acciaccati con tutti i comfort, che in piena salute ma a pancia vuota.

Lorenzo Sandiford

domenica, luglio 21, 2013

De Rita ha ragione a puntare il dito sui partiti, ma la sua ricetta ha una pecca

D'accordo con Giuseppe De Rita, nel suo editoriale sul Corriere della Sera del 20 luglio ("Salvate i partiti da se stessi"), per come inquadra la fase di stallo politica in cui si trova l'Italia oggi. Con una sola obiezione, però cruciale, riguardo ai passi necessari ai partiti per diventare strumenti politici funzionanti: non credo che un partito debba identificare un "blocco sociale di riferimento" per essere tale, come se l'unica alternativa fosse una "condivisione d'opinione".
Chi come me ha creduto nella possibilità di un Pd a "vocazione maggioritaria" (anche se ho sempre preferito non usare pubblicamente quel termine facile da fraintendere) e in un sistema bipolare centrato su due forze principali è convinto che un partito possa più proficuamente fondarsi su un modello di società verso cui muoversi attraverso le riforme: un modello di società appetibile a una larga fascia della popolazione, non soltanto a un blocco sociale vecchia maniera.
Certo, se i partiti restano concepiti e "organizzati" come adesso - eserciti di persone cooptate secondo i voleri delle élite di blocchi socio-economici di riferimento - non possono funzionare che, appunto, se sono l'espressione più o meno fedele di quei blocchi, senza corpi estranei che creano solo disordine.

Ma se si allarga l'orizzonte delle forme partito possibili ci si rende conto che sono concepibili partiti a vocazione maggioritaria organizzati democraticamente in modo che in essi possano confluire più categorie sociali, unite da determinati progetti di cambiamento e modelli di società obiettivo. Non si tratterebbe di semplice condivisione di opinioni, quanto piuttosto della scelta di modelli di società desiderabili, quanto a competitività e qualità della vita, perché in grado di dare spazio e valorizzare molte, se non proprio tutte, realtà socio-economiche del Paese. 
E' solo questo genere di partito che può guidare il cambiamento, attraverso una sintesi o meglio una rielaborazione delle rivendicazioni lobbistiche delle varie categorie socio-economiche, e non - come adesso - procedendo quasi a casaccio in base alle spinte, più o meno forti, di tali lobby economiche. Insomma, è solo così che, a mio parere, si può ristabilire il primato della politica.
Per il resto, ha ragione De Rita: non si può riformare in modo incisivo la politica italiana solo ripensando le istituzioni, ci vuole anche una revisione della dimensione partitica, che è in profonda crisi, come testimoniato dal movimento di Grillo e dalla "onda d'opinione per Scelta civica" ma anche dal Pdl e persino dal Pd. Inoltre, è vero che dietro ai partiti ci dovrebbe essere un'idea di forma partito precisa e delle regole di funzionamento "certe e costanti", se si vuole che funzionino bene e producano programmi efficaci.


Lorenzo Sandiford

giovedì, aprile 25, 2013

senza titolo

Un partito, per poter governare con molte divisioni interne, deve saper governare le divisioni interne.

Non è così difficile. Ma è necessario non cercare di nasconderle, prima di tutto a se stessi.

Lorenzo Sandiford

(scritto il 20 aprile su Facebook e su ioeilpd)

sabato, marzo 09, 2013

Carlo De Benedetti: da editore a editorialista (e pure bravo)

"Penna o tastiera rubata al commento giornalistico" verrebbe da dire retrospettivamente leggendo i corsivi sul Sole 24 Ore dell'Ingegner Carlo De Benedetti, se non fosse stato l'editore, imprenditore e uomo d'affari che è stato.
E' una battuta che mi frulla da un po' di tempo nella testa, dopo aver letto alcuni interessanti e davvero ben scritti articoli di De Benedetti per il quotidiano di Confindustria, ma che per pigrizia o mancanza di tempo avevo sinora evitato di postare. E anche un ottimo spunto per un'intervista, un po' come nel caso dello scienziato Maracchi alla guida dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze, visto che non mi pare così frequente vedere un editore in pensione che si mette a fare l'editorialista e a tale livello.
Interessante l'ultimo suo commento, il primo marzo, intitolato "Economia reale e moralità per ripartire". In cui fra l'altro sostiene giustamente che è cruciale che la pubblica amministrazione paghi velocemente i debiti accumulati verso le imprese (prima che queste falliscano) a costo di aumentare di qualche punto il debito pubblico.
Ma ancor di più lo era il penultimo ("La guerra valutaria che cambia l'Europa", Sole 24 Ore 29 gennaio 2013) dove toccava di passaggio un argomento su cui ero intervenuto (forse esagerando un po') con un post nel mio profilo Facebook. Mi riferisco alla definizione del lavoro come priorità di governo per l'Italia, che ho criticato come formula sbagliata in quanto fuorviante e illusoria. Ebbene, Carlo De Benedetti, nell'incipit di quell'editoriale, è quasi come se indirettamente mi sconfessasse e desse ragione al tempo stesso. All'inizio afferma infatti: "Ma come, si dirà, non era il lavoro, la creazione di nuova occupazione, la priorità mondiale del nuovo anno? Sì, lo è". Però poi aggiunge: "Ma la guerra per il lavoro si combatterà anche, e forse soprattutto, con la guerra delle valute. Perché è dalle valute che oggi passa la leva più potente per la competizione tra i sistemi produttivi e, quindi, la capacità per ciascuno di essi di creare posti di lavoro". Confermando ciò che avevo sostenuto io: in fin dei conti non ci sono grandi scorciatoie per creare posti di lavoro, la chiave è sempre la competitività del sistema produttivo.
Ad ogni modo, ribadisco la sorpresa nell'aver scoperto questo talento di De Benedetti, che con la sua scrittura agile ed efficace avrebbe meritato un posto al fianco degli editorialisti di Repubblica o dell'Espresso. Intervistatelo, voi che potete, e segnalatemi l'articolo, ché sono curioso di vedere cosa dice in proposito.

Lorenzo Sandiford

sabato, febbraio 23, 2013

Caro Settis, se non è "antipolitica" Grillo, allora aboliamo la parola!

Apprezzo quasi sempre le prese di posizione di Salvatore Settis, specialmente in materie "sue" come la tutela dei beni culturali e la protezione ambientale. Ma le risposte da lui fornite nell'ottima intervista del 21 febbraio 2013 di David Allegranti sul Corriere fiorentino non mi sembrano contraddistinte da sufficiente capacità di penetrazione delle questioni poste dal giornalista.
Settis, a mio parere, non va oltre la superficie delle cose quando riduce i problemi dei partiti italiani a quasi un epifenomeno della legge elettorale e anche nel modo in cui tocca il capitolo primarie del Pd è troppo sbrigativo. Idem per altri passi.
Ma soprattutto non mi convince molto la sua risposta sul Movimento 5 Stelle, per il quale rifiuta l'espressione "antipolitica". Se hanno infatti un certo fascino su di me le idee che "la vera antipolitica sono i centri di potere non controllati dalla democrazia" e che "antipolitica sia una parola 'violenta e disonesta'" (molto spesso, integro io), non vedo però a quale altro movimento possa essere data con altrettanta fondatezza quella etichetta.
Altro discorso sono stati ad esempio i girotondi, attraverso i quali, oltre a criticare i partiti attuali (la politica), si provò - con scarsissimo successo a dire il vero - a cambiarli e a costruire una politica diversa, più partecipata ed effettivamente democratica. Grillo invece, tramite il suo "tsunami", critica e distrugge (a volte con buone motivazioni) tutto quello che incontra. Ma la sua pars costruens è di una povertà assoluta, imbarazzante.
Se non è antipolitica Grillo, cosa mai lo sarà? Allora piuttosto diciamo che si deve abolire la parola perché l'antipolitica non esiste: sarebbe un concetto impossibile, mal definito, perché ogni cosa che nasce come antipolitica sarebbe in realtà, automaticamente o per definizione, politica a tutti gli effetti, solo che una nuova forma di politica.
Non credo però che questa posizione sia accettabile. La parola antipolitica è giustificata quando c'è un disprezzo per la politica professionale e per i suoi metodi democratici. Quest'ultimo è un fenomeno che merita un nome.


Lorenzo Sandiford

lunedì, gennaio 23, 2012

Turismo dell'orrore al Giglio? Macché, il vero orrore (concettuale) sono i giornalisti che parlano di orrore

Ennesimo episodio di turismo delle tragedie o dell'orrore quello di chi si è recato ieri e oggi all'isola del Giglio?
"Sconcertante" la risposta di un tizio che dice semplicemente che è toccante lo spettacolo di quell'immensa nave rovesciata a due passi dagli scogli della costa?
A me pare che ad essere sconcertanti siano i due servizi di telegiornale che ho visto oggi (ormai ieri) in cui si mostravano i turisti guardare la nave e fotografarla con l'accompagnamento dei commenti denigratori degli autori dei servizi.
Come mai? Siccome sono assonnato la faccio breve. Il fattore cruciale dietro a questi servizi giornalistici pessimamente confezionati, con la mescolanza di fatti e giudizi di valore come minimo fuori luogo, è l'errata analogia tra l'atto di andare a visitare il nulla, come nel caso di Avetrana, e l'atto di andare a vedere la nave semi affondata al Giglio. Infatti in questo caso qualcosa di paurosamente spettacolare da vedere oggettivamente c'è. Nessuno è andato al Giglio per vedere morti o feriti, bensì per la curiosità di assistere con i propri occhi a una scena davvero impressionante e insolita in una cornice paesaggistica molto bella.
Che c'entrano le escursioni turistiche legate all'omicidio di Avetrana o simili con questa verso la nave al Giglio? Molto poco.
Per non parlare poi del controsenso di assistere a giornalisti che si meravigliano della curiosità di tante persone normali, quando si tratta proprio del sentimento che è alla base del mestiere giornalistico e in particolare del fatto che loro stessi siano lì in questi giorni al Giglio a coprire l'evento (senza telespettatori interessati e incuriositi non ci sarebbe copertura mediatica).

Lorenzo Sandiford

domenica, gennaio 01, 2012

Le lobby più potenti? Quelle che non vengono chiamate lobby

Quali sono le lobby più potenti d'Italia? Mi dispiace deludere qualcuno, ma sono proprio quelle che non vengono mai citate nei servizi giornalistici sulle lobby.
Quelle nascoste sotto il cappello di intelligenti e furbi spin doctor intrufolati nelle maggiori testate giornalistiche del Paese e che vengono poi inghiottite da paurosi buchi neri informativi al servizio di grandi capitali e settori imprenditoriali. In pratica le lobby così potenti da essere in grado di orchestrare sui media più importanti vere e proprie campagne d'informazione contro gli avversari economici scomodi o chi soltanto si oppone alla loro espansione negli spazi che non hanno ancora occupato dell'economia nazionale. Con buona pace del modello italiano di democrazia corporativa, che aveva garantito finora la libera espressione di molti cittadini e una qualità di vita invidiabile e invidiata da tutto il mondo da molti punti di vista, anche se poteva e doveva essere riformata, modificata negli aspetti che non funzionavano: con maggiore concorrenza e lotta all'evasione fiscale dei lavoratori autonomi.

Una conferma di ciò si è avuta qualche giorno fa sul Tg 2 (per altro ottimo telegiornale di solito), che ha trasmesso un pacchetto di servizi per certi versi interessante sul fenomeno lobby in Italia e all'estero. Cosa era che non andava in quel pacchetto di servizi? C'erano "semplicemente" due lacune che hanno inficiato la plausibilità di tutta la serie di servizi:
a) non veniva ricordato che nella Regione Toscana una legge che regolamenta il rapporto fra lobby e consiglieri regionali c'è già;
b) ma soprattutto ci si era dimenticati di segnalare fra le lobby italiane, contro ogni evidenza, la maggior parte delle categorie di rappresentanza del variegato mondo delle imprese: da Confindustria a scendere. Con la conseguenza che, in pratica, le uniche lobby esistenti in Italia sarebbero state le cosiddette corporazioni, non le corporation ma le associazioni dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti.

Insomma la tesi sarebbe la seguente: l'economia italiana è rovinata da certe lobby economiche che non vogliono accettare il libero mercato e queste coincidono o quasi con tutte le attività autonome non esercitate nell'ambito delle grandi organizzazioni d'impresa (di un tipo o dell'altro). Esempi sempreverdi? I tassisti, naturalmente, i farmacisti, i giornalisti (solo se pubblicisti, in particolare freelance) e gli avvocati.
Inutile provare a replicare pacatamente così:
- Sui tassisti avete in gran parte ragione, ma se non si vuole fare macelleria sociale bisogna aumentare le licenze gradualmente (da qui a tot anni), visto quanto hanno speso fino ad oggi per ottenerle gli attuali tassisti e dato che piuttosto che mettere in difficoltà interi settori economici e famiglie conviene introdurre a poco a poco una maggiore concorrenza.
- Ormai molti parafarmaci sono già venduti nei supermercati e non esistono solo le ragioni della concorrenza ma anche quelle della salute, per cui è bene che a dare ai clienti-pazienti le medicine siano farmacisti veri e propri in grado di dispensare saggi consigli, dopo di che siamo proprio curiosi di vedere di quanto si abbasserebbero i prezzi nei supermercati se a dare le medicine fossero dei farmacisti.
- Eliminare dirigisticamente dal mercato del lavoro giornalistico una bella fetta di persone che ne fanno in un modo o nell'altro già parte e restringere quindi artificialmente (e quasi all'improvviso) la platea delle persone con uguali possibilità di accesso alle occupazioni giornalistiche - oltre ad essere terribilmente ingiusto in termini di cancellazione di diritti acquisiti e livelli di qualifiche raggiunti (in funzione dei quali erano stati fatti interi progetti di vita) -, mi sembra operazione assai difficilmente classificabile come liberalizzazione, visto che in realtà si tratta di scelta che va nella direzione opposta; almeno chiamiamo le cose con il loro nome; lo lascio scegliere ai governanti, limitandomi ai seguenti suggerimenti: x) la conquista di una cassa previdenziale privata che funzionava da parte dell'Inps che funziona peggio oppure y) prima tappa di una raffinata strategia a metà strada tra il divide et impera e la finta (mezzo passo prima in una direzione per poi farne uno intero successivo in quella opposta) che ha già ben funzionato con gli avvocati.
- Già con la mediaconciliazione obbligatoria su una così vasta classe di ambiti civilistici è stata in sostanza semi privatizzata la giustizia civile (adesso gestita sotto l'egida dei conflitti d'interessi dai "tribunalini" delle organizzazioni di categoria, spesso anche privi di competenze all'altezza del compito) dimezzando il lavoro a disposizione di una vasta platea di avvocati civilisti (la più alta in Europa) che era stata fatta aumentare negli anni scorsi, proprio su impulso delle lobby presunte non-lobby delle imprese con la scusa che mancava la concorrenza, e che adesso viene privata del lavoro con la scusa che la troppa concorrenza favorisce l'aumento delle liti (allora la sacra concorrenza ha fallito?); ma tutto ciò non basta, ora si vorrebbe il libero accesso dei soci di solo capitale (imprese) negli studi legali e, perché no, magari in futuro anche la loro quotazione in borsa come accade in alcune parti del mondo, con ulteriore moltiplicazione dei conflitti d'interessi, a scapito di una giustizia civile in grado di offrire garanzie ai cittadini comuni; di nuovo, per favore, almeno non parlate di liberalizzazioni: qui la concorrenza era già quasi massima (bastava un ritocco alle norme sulla pubblicità degli studi legali) ed è stata ridotta con la scusa della pur vera necessità di abbassare il tasso di litigiosità e la lentezza dei processi civili (per i quali potevano essere sufficienti nuove norme sulle liti temerarie e una riorganizzazione manageriale della macchina della giustizia accompagnata da un serio sfoltimento delle leggi), qui è l'impresa italiana che invece di fare il suo mestiere nei settori in cui viene sorpassata dalle economie emergenti cerca di accaparrarsi altri ghiotti mercati, con quali esiti per la qualità della giustizia è facile immaginare.

Queste mie posizioni saranno anche discutibili. E sarà discutibile la mia tesi che sarebbe (stato) meglio modificare gradualmente il nostro modello di democrazia ad alto tasso corporativo, aumentandone la concorrenzialità dove già non c'era gradualmente e lasciando che fosse il mercato a fare la selezione dei lavoratori autonomi non in grado di trovare le giuste nicchie. Ma non vedo come si possa accettare di chiamare semplicisticamente "liberalizzazioni" politiche che sembrano piuttosto precise strategie di espansione in nuovi mercati da parte del mondo delle imprese italiane e del modello capitalistico.

Attenzione, gente, le lobby più potenti sono proprio quelle che mancano all'appello, quelle che non vengono quasi mai elencate nei servizi giornalistici sulle lobby.

Lorenzo Sandiford

giovedì, febbraio 03, 2011

LE BUSVIE SI FANNO DOVE SERVONO: le corsie preferenziali, i posti auto gratuiti, i "domenicali" e la qualità della vita degli italiani meno abbienti.

Lo so, questa titolazione è alquanto wertmulleriana. Ma quando ci vuole, ci vuole. E in questo caso ci sta proprio bene. Come il truismo, del resto. Che non sembra nemmeno tale, almeno a giudicare dal comportamento di tante amministrazioni pubbliche competenti in materia di corsie preferenziali.

Spesso infatti queste sembrano non ricordarsi che le busvie in un Paese civile si dovrebbero creare soltanto dove gli autobus si bloccano spesso a causa del traffico (il che non significa dove non riescono ad andare a 70 km all'ora).
E magari, se si ha a cuore la qualità della vita dei cittadini di tutti gli strati sociali, dopo aver trovato una soluzione ragionevole per i posti auto in meno lungo le strade a disposizione dei residenti. Fra cui ci sono, vale la pena sottolinearlo, anche persone che non si possono permettere, non solo di comprare un box per l'automobile, ma nemmeno di affittarlo.

Qualcuno, ad esempio Innocenzo Cipolletta che scrisse un interessante articolo sull'argomento qualche anno fa sul Sole24Ore, mi potrà obiettare che in certe parti del mondo si può comprare l'auto soltanto se si è già in possesso del relativo spazio per parcheggiarla. Ad esempio a Tokyo, da dove viene mia moglie.
Ma intanto, almeno se non ci sono stati cambiamenti negli ultimi tempi, questo non vale per le piccole auto ecologiche. In secondo luogo, in Giappone c'è molta più uguaglianza economica, nel senso di meno differenze di reddito fra poveri e ricchi, e una classe media assai più diffusa e benestante che da noi (anche su questo punto mi rifaccio a dati un po' vecchi letti sul Sole 24ore diverso tempo fa).
Per cui sono molti di meno coloro che non possono permettersi il posto auto.

Ma qui da noi in Italia, e in particolare nella mia regione, la Toscana, e nella mia città, Firenze, la situazione è diversa. Piaccia o no, il posto auto gratis è diventato un diritto acquisito a un pizzico di felicità.
Per molte persone qualunque l'auto è un ingrediente essenziale del way of life toscano (e di gran parte del resto d'Italia) nel tempo libero, perché significa weekend in giro attraverso la nostra sempre meno ma ancora meravigliosa campagna: a pescare, a cercar funghi, a guardare gli uccelli e gli altri animali dei boschi.

Finora cose del genere se le sono potute permettere tutti o quasi. Tant'è che è sempre stata molto numerosa la categoria dei cosiddetti "domenicali", quegli automobilisti un po' imbranati che prendono l'auto solamente il sabato e la domenica.
Fenomeno che spiega, in una città come Firenze, lo scarso uso del bel parco delle Cascine, dove vanno invece gli immigrati, perché o privi di auto o ancora inconsapevoli delle bellezze delle nostre campagne a pochi minuti dalla città.

In conclusione, prima di togliere i posti auto e di conseguenza l'auto a molte persone che abitano nelle città della Toscana (e di molte altre parti d'Italia), ci penserei diverse volte.
A meno che, chiaramente, non ci si venga a trovare di fronte alla prospettiva concreta di crisi energetiche epocali che comportino l'eliminazione dei mezzi di trasporto privato a tutti. Situazione che potrebbe accadere e anche in un futuro non lontanissimo, ma che però potrebbe invece essere scongiurata dall'invenzione di nuove auto super ecologiche.

Tutto ciò non significa rinunciare alla promozione di un maggior uso dei mezzi pubblici, battaglia in cui credo fermamente.
Significa soltanto che io sono sì a favore di una lotta contro l'uso inutile e quotidiano delle auto: per andare a lavoro, a scuola, al cinema; insomma per fare spostamenti per cui vanno benissimo pure i mezzi pubblici e le gambe, malgrado qualche minuto in più che ovviamente si perde.
Ma vorrei che l'auto restasse a disposizione di tutti quelli che finora se la sono potuta permettere nella sua unica funzione davvero importante per la qualità della vita, e cioè come strumento di libertà nel tempo libero.

Lorenzo Sandiford

venerdì, settembre 14, 2007

Limiti di velocità troppo bassi sono un danno per il Paese

LO SPUNTO - QUASI IN TEMPO - DOPO LA LETTURA DI UN ARTICOLO DI ALBERTO ALESINA SU TUTT'ALTRO TEMA, PUBBLICATO SUL SOLE24ORE DEL 7 SETTEMBRE 2007

LIMITI DI VELOCITA’ TROPPO BASSI SONO UN DANNO PER IL PAESE
 
Le nuove norme del codice della strada hanno giustamente reso più severe le sanzioni per chi supera ampiamente i limiti di velocità. Però capita di tanto in tanto, almeno in Toscana, di incappare in cartelli stradali con limiti di velocità ridicolmente bassi. Si tratta di una cattiva prassi da estirpare: da un lato, infatti, incide negativamente senza motivo sulla produttività del sistema territoriale, dall’altro incoraggia il già scarso rispetto delle regole da parte degli italiani.

 
Ok alla battaglia contro chi sfreccia superando i limiti di velocità. Ed è stato positivo il recente inasprimento del codice della strada in tal senso. Ma proprio per questo bisogna che i limiti di velocità "facoltativi" fissati dagli enti proprietari delle strade siano sensati. Infatti, limiti eccessivamente bassi sono deleteri: intaccano inutilmente la produttività di un sistema territoriale e incoraggiano il già scarso rispetto delle regole di noi italiani.
Lo spunto per questo messaggio nella bottiglia me lo ha dato un articolo di Alberto Alesina su tutt’altro argomento, uscito il 7 settembre scorso sul Sole 24Ore. In esso Alesina fa l’esempio dei limiti di velocità per sottolineare che, in campo finanziario come in molti altri settori e casi, vincoli eccessivi rischiano di essere controproducenti. "Ritornando all’analogia con gli incidenti stradali – sostiene Alesina – sarebbe facile evitarli del tutto riducendo la velocità massima a 30 km orari. Ma con quali ripercussioni sull’economia e la nostra vita quotidiana?". In altri termini, limiti di velocità eccessivamente bassi rischiano di ripercuotersi negativamente sulla produttività del sistema economico di un certo territorio.
In realtà è da diverso tempo che rimugino su questo problema apparentemente ignorato dalle autorità competenti in materia a Firenze e in altre parti d’Italia (ma forse un po’ meno in Sicilia, nel Ragusano, dove sono recentemente stato in vacanza, constatando molta più ragionevolezza nell’arte di imporre limiti di velocità adeguati al tipo di strada). Questo cenno, en passant, alla questione da parte di un autorevole economista come Alesina rafforza il mio convincimento che sia necessario discuterne pubblicamente.
Tanto più perché mi pare che la cattiva prassi di combattere l’alto tasso di incidenti sulle nostre strade ricorrendo a limiti di velocità ridicolmente bassi sia la conseguenza di tre atteggiamenti piuttosto diffusi nel nostro Paese: 1) l’idea, di matrice "furbetti del mercatino rionale", che per ottenere 100 bisogna chiedere 200 o almeno 150; 2) l’insufficiente ricorso allo studio empirico rigoroso dei fenomeni prima di escogitare soluzioni e prendere provvedimenti; 3) il desiderio compulsivo di molti esponenti delle nostre istituzioni di comparire sui giornali il più rapidamente e rumorosamente possibile con la prima trovata che passa per la testa.

L’arte di fissare i limiti
Non essendo un esperto in materia non ho la pretesa di offrire una risposta precisa al problema della scelta di limiti di velocità adeguati ai vari tipi di strada di un certo territorio, ad esempio quello fiorentino. Tuttavia mi sembra che tale questione vada affrontata più o meno nei seguenti termini.
Posto che è interesse generale non intaccare la produttività di un certo territorio e che spostamenti troppo lenti dei mezzi a quattro e due ruote si ripercuoterebbero negativamente su di essa, bisogna individuare i limiti di velocità più alti compatibili con la piena sicurezza dei vari tipi di strade (perché, ovviamente, un alto tasso di incidenti stradali ha ricadute ancora più pesanti sulla produttività). E per fare ciò correttamente, soprattutto in mancanza di buonsenso, è necessario tenere conto di accurati studi sulla casistica degli incidenti stradali nei vari tipi di strade.
E qui già sento voci gridare: ma non lo sai che la maggior parte degli incidenti sono dovuti all’eccesso di velocità? La mia risposta è: un momento, bisogna vedere di che tipo di eccesso di velocità si parla. Affinché gli studi sulla casistica degli incidenti stradali siano davvero utili bisogna che siano sufficientemente raffinati.
Non basta sapere, tanto per fare qualche rozzo esempio, che nella strada x, in cui c’è un limite di velocità di 30 km all’ora, nel 75% degli incidenti verificatisi uno dei mezzi coinvolti aveva superato il limite di velocità; bisognerebbe determinare anche di quanto tali limiti erano stati superati (perché magari scopriremmo che nel 70% degli incidenti verificatisi il limite era stato superato di oltre 30 km, per cui un limite di 50 km orari per quella strada sembrerebbe sufficiente) e se ci sono altri fattori altrettanto rilevanti. Ad esempio, se l’80% degli incidenti è avvenuto sul medesimo tratto col fondo stradale malmesso oppure se il 90% degli incidenti si è verificato in prossimità di uno stop ignorato da una delle vetture coinvolte.
Ora, al di là dei dettagli e delle eventuali precisazioni metodologiche degli esperti, mi sembra naturale che la questione vada affrontata più o meno nel modo sopra descritto. Ma apparentemente le cose non funzionano così a Firenze, la mia città, e probabilmente anche in molte altre parti d’Italia.

Lo stato dell’arte
Come mai dico questo? Perché a Firenze ci sono alcuni cartelli stradali con limiti di velocità così bassi da sfiorare il ridicolo.
Ad esempio il limite di 30 km orari alla fine di Viale Fratelli Rosselli, lì dove inizia il sottopasso che porta alla Fortezza da Basso (un sottopasso a senso unico di ben quattro corsie, ormai solo virtuali perché le strisce bianche sono sparite), descritto in un servizio giornalistico comparso su Repubblica Firenze alcuni mesi fa.
Oppure il limite di 40 km sul viadotto dell’Indiano che, quasi come una superstrada, ha due carreggiate di due corsie ciascuna. Un limite giustamente stigmatizzato, ma purtroppo invano, da un lettore di Repubblica Firenze diverso tempo fa nella rubrica della posta di quel giornale. Francamente dubito che, in assenza di ingorghi, la causa degli incidenti che si verificano in quei luoghi dipenda dal fatto che alcune vetture vadano a 50-60 km orari. (Naturalmente, il discorso cambia e quei limiti sono adeguati nel caso di "intenso traffico": non sarebbe più logico aggiungere questa specificazione ai cartelli?).

La probabile causa principale
Come dicevo, credo che questa cattiva prassi dipenda dai tre atteggiamenti deleteri sopra richiamati. Vorrei ritornarci sopra perché mi sembra che affrontarli e possibilmente estirparli sia un ingrediente essenziale di ogni ricetta per lo sviluppo della competitività del Paese. Mi concentrerò sul punto 1, il più cogente in questo caso, cioè sull’atteggiamento derivante dall’idea che per ottenere 100 bisogna chiedere 200 o almeno 150, riservando ai punti 2 e 3 poche battute.
Può darsi che mi sbagli, ma a me pare che questo atteggiamento sia frequente in Italia nei rapporti tra organi pubblici e cittadini, e a dire il vero anche nei rapporti tra privati. Sarebbe interessante il riscontro degli antropologi in proposito. In ogni caso, mi pare che tale atteggiamento si manifesti al massimo grado, oltre che nel codice stradale, in materia fiscale e di decoro urbano.
Un altro esempio, tratto dalla mia esperienza personale di 20 anni fa, è l’università. Avevo l’impressione, a quei tempi. che in certi esami alcuni professori assegnassero migliaia di pagine di libri da studiare fondandosi sull’assunto sbagliato che assegnandone, che so, 5000, almeno gli studenti ne avrebbero studiate la metà.
(Adesso, però, mi dicono i miei amici professori universitari, si è passati all’estremo opposto. A nessuno che siano venuti in mente metodi più elastici come quelli di certe università inglesi: si dà un’ampia bibliografia di riferimento, ma non si chiede di imparare a memoria i libri, bensì si escogitano test ad hoc dai quali si capisce che cosa lo studente sia riuscito ad imparare pescando liberamente nella bibliografia di riferimento; così da valorizzare, tra l’altro, non solo l’impegno e la capacità di chi dimostra di aver letto e compreso più testi degli altri, ma anche le doti e propensioni di chi, magari avendone letti un po’ meno, riesce però ad utilizzare in maniera più creativa e adeguata agli scopi le informazioni acquisite.)

Dove sta l’errore
Ebbene questa idea, applicata ai rapporti tra istituzioni pubbliche e cittadini, è molto deleteria e per varie ragioni. Le richiamo attenendomi al caso dei limiti di velocità.
Cosa significa mettere un limite di 30 km orari in certe strade per ottenere che la gente non superi i 50 km orari?
Se l’autorità è del tutto coerente con il suo obiettivo, si traduce nel fatto che il limite è 30, ma le sanzioni verranno comminate sempre solo sopra 50. Questo comporta che a poco a poco molta gente si abituerà a non prendere alla lettera i limiti di velocità, a snobbarli o almeno a reinterpretarli. E siccome c’è un’asimmetria informativa tale per cui il cittadino non può sapere con certezza qual è il limite vero, quello superando il quale verrà effettivamente sanzionato, alcuni cittadini azzeccheranno l’interpretazione giusta mentre altri ("più ottimisti") no e saranno puniti. Inoltre i cittadini più onesti e prudenti, sempre rispettosi del limite di 30, saranno danneggiati sul piano della produttività rispetto ai cittadini che hanno azzeccato l’interpretazione giusta di 50 (pensiamo al caso dei corrieri o degli idraulici).
Ma in realtà le cose sono più complesse. Intanto perché c’è la complicazione di un sistema sanzionatorio articolato in varie fasce di eccesso di velocità. Argomento che non intendo affrontare qui, salvo dire che in linea di massima preferirei limiti di velocità più alti, fasce un po' diverse da quelle attuali e sanzioni relativamente più pesanti anche per gli eccessi di fascia inferiore. Ma soprattutto perché è difficile che l’autorità sia completamente coerente con il suo obiettivo, nel senso che molto probabilmente accadrà che in qualche caso i limiti vengano presi alla lettera da certi vigili, per cui anche i cittadini che avranno avuto la fortuna di azzeccare il "limite obiettivo" abituale di 50 in qualche caso saranno puniti. E a prevalere sarà così l’imprevedibilità delle sanzioni in rapporto ai comportamenti degli automobilisti, i quali alla fine penseranno che forse è meglio "fottersene" e assumere un atteggiamento fatalista.
Insomma, tutto il contrario di un sistema equo ed efficiente, che richiede regole e limiti tali da poter essere presi sul serio, cioè alla lettera.

Altre possibili cause
Riguardo al punto 2, cioè all’apparente scarso ricorso a studi empirici rigorosi e neutrali prima di prendere una decisione, ho poco da dire. E’ talmente ovvio da superare il mio "furore truistico". Mi limiterò a notare che troppo spesso si ha l’impressione che decisioni politiche anche importanti, quali l’avvio di determinate grandi opere, vengano prese senza adeguati e onesti studi preliminari sul loro impatto complessivo. Delle due l’una: o questi studi rigorosi vengono fatti ma non sono divulgati a sufficienza o non esistono proprio.
Infine, anche sul punto 3, vale a dire il tema della spasmodica ricerca di visibilità dei rappresentanti delle nostre istituzioni, ho poco da dire. Ne hanno già scritto in tanti. Sottolineo soltanto che l’unico antidoto sarebbe una stampa in grado di fare il proprio dovere con spirito critico senza farsi piegare ai vari interessi politici ed economici in gioco.


Lorenzo Sandiford

venerdì, ottobre 27, 2006

Che piacere i filmati dei gol senza commenti! Una conferma del pessimo stato del giornalismo sportivo in tv

LA SORPRESA - QUASI IN TEMPO - IN SEGUITO ALLA MESSA IN ONDA, IL 25 OTTOBRE SU ITALIA UNO, DELLE SINTESI CON LE IMMAGINI SENZA LE VOCI DEI GIORNALISTI DELLE RETI DELLA 8^ GIORNATA DEL CAMPIONATO DI CALCIO DI SERIE A

CHE PIACERE I FILMATI DEI GOL SENZA COMMENTI!
UNA CONFERMA DEL PESSIMO STATO DEL GIORNALISMO SPORTIVO IN TV

Sarà soltanto una mia idiosincrasia, ma l'altro ieri mi sono davvero goduto la visione dei gol delle partite di serie A su Italia Uno senza l'invadenza parolaia di giornalisti e "illustri ospiti". Ai miei occhi, lo sciopero dei giornalisti si è trasformato in un clamoroso boomerang per l'informazione sportiva televisiva.
Sarei davvero curioso di fare un esperimento: utilizzare quella trasmissione d'emergenza delle sintesi con i gol e le azioni principali delle partite, senza ulteriori mediazioni giornalistiche, come un nuovo format di programma televisivo da mettere in onda in uno dei vari canali in chiaro dopo tutte le giornate di serie A. Vorrei verificare come se la caverebbe quanto ad audience rispetto agli altri programmi televisivi sul campionato di calcio.
Ma anche senza arrivare a tanto, il piacere da me provato - se non è il frutto di una patologia rara - dovrebbe far riflettere i responsabili dei programmi televisivi dedicati allo sport sul loro approccio all'informazione sportiva. Perché forse vale la pena di provare a cambiare impostazione. Meno chiacchiere e ospiti, e più spazio alle sintesi filmate, magari costruite meglio, di tutti gli avvenimenti sportivi. Se ci sarà una buona risposta in termini di audience, saranno contenti anche gli editori, che potranno anche tagliare i costi per i gettoni di presenza, limitandosi a pagare, magari di più, i giornalisti autori delle selezioni delle immagini salienti.
Cercherò di elencare, in una sorta di rapido resoconto introspettivo, le ragioni per cui mi sono goduto quella trasmissione d'emergenza molto di più dei soliti programmi televisivi dedicati al calcio.
Primo, ho provato un immenso piacere nel non perdere parte del mio prezioso tempo (per chi non lo è?), di solito buttato via nell'assistere a presentazioni e chiacchiere inutili di privilegiate persone di cui non mi importa un tubo, per arrivare subito al sodo: le immagini dei gol e delle azioni principali (prodezze e casi dubbi) delle partite.
Secondo, tale sensazione di piacere era rafforzata dall'idea che non stavo contribuendo indirettamente allo spreco di soldi in gettoni di presenza a favore di codesti privilegiati. I quali oltretutto, spesso, tra battute risatine e reciproci ammiccamenti del tutto autoreferenziali, mostrano di non saper nemmeno tenere a freno la loro gioia scomposta per la pacchia che gli è capitata: guadagnare per non fare quasi nulla.
Terzo, ho goduto nel vedermi le immagini accompagnate dai rumori "dal vero" dello stadio, non più coperti dai flussi di parole ridondanti o tendenziosi, o peggio ancora - come va ultimamente di moda - pseudo-letterari, dei cronisti.
Spero che l'esternazione di queste mie sensazioni, senz'altro un po' esagerate, serva da spunto per la riconsiderazione dei programmi sportivi in tv. Il tenerne conto, anche solo parzialmente, potrebbe giovare alla qualità dei programmi e alla salute psichica di chi guarda la televisione e ancor più di chi la fa.


Lorenzo Sandiford



venerdì, ottobre 06, 2006

Un po' di ottimismo sui rapporti tra culture: nota alla Bustina di Minerva di Eco "Integrazione dal basso".

RILANCIO - QUASI IN TEMPO - DA L'ESPRESSO DEL 28 SETTEMBRE 2006
POST DEL 6 OTTOBRE 2006 SUL MIO BLOG IL TRUISTA - NOTE IN MARGINE ALL'ESPRESSO (lorenzosandiford.blog.espresso.repubblica.it)


UN PO' DI OTTIMISMO SUI RAPPORTI TRA CULTURE:
NOTA ALLA BUSTINA DI MINERVA "INTEGRAZIONE DAL BASSO"

Nella Bustina di Umberto Eco "Integrazione dal basso" viene descritta un'interessante iniziativa di Transcultura rivolta agli studenti universitari di origine familiare extraeuropea che si trovano in difficoltà a causa delle differenze culturali. Da quanto ho capito, si tratta di corsi che hanno come elementi centrali le competenze linguistiche e matematiche, e sono basati su un lavoro di gruppo in cui i giovani si aiutano reciprocamente nella comprensione della cultura francese facendo leva ciascuno sulle peculiarità della propria cultura d'origine: la combinazione dei vari punti di vista dovrebbe migliorare il processo di apprendimento.
Tutto bene. Credo però che simili iniziative, opportunamente adattate, siano ancora più utili alle scuole medie superiori e inferiori, prima che si accumulino i ritardi e quando la capacità di apprendimento, soprattutto linguistica e matematica, è migliore.

Colgo l'occasione per aggiungere un'osservazione generale sul tema dei rapporti interetnici, che ultimamente sui media vengono sempre dipinti come problematici. Non voglio negare le difficoltà che certamene esistono, tanto più negli ultimi anni in seguito all'attentato alle torri gemelle e alla guerra in Iraq, che hanno alimentato - grazie anche all'uso sconsiderato dei media - l'odio e la diffidenza tra molte popolazioni del pianeta.
Tuttavia bisogna sempre tenere presente che gli scontri tra culture fanno più notizia ed hanno più spazio sui media, ma ci sono anche segnali e trend positivi. Ad esempio il forte aumento del numero di coppie interetniche ed interrazziali: bianchi neri gialli ecc in tutte le gradazioni e combinazioni. Non so quantificare il fenomeno, ma - anche se se ne parla poco - mi sembra del tutto evidente: basta confrontare quello che si vede adesso passeggiando nelle strade affollate di turisti di Firenze con quello che si vedeva 15 anni fa.

Ciò mi rende ottimista, terroristi e capi di governo permettendo.

Lorenzo Sandiford


venerdì, settembre 29, 2006

E' anche colpa del Bestiario: commento a "come far durare 'il fattore C'" di Pansa

CONTROCANTO CORRETTIVO - QUASI IN TEMPO - DA L'ESPRESSO DEL 25 SETTEMBRE 2006
POST DEL 26 SETTEMBRE 2006 SUL MIO BLOG IL TRUISTA - NOTE IN MARGINE ALL'ESPRESSO (lorenzosandiford.blog.espresso.repubblica.it)


E' ANCHE COLPA DEL BESTIARIO: COMMENTO A "COME FAR DURARE 'IL FATTORE C'" DI PANSA

Caro Pansa, d'accordo al 100% con i suoi suggerimenti a Prodi, ma le faccio notare (scherzosamente) che è anche colpa sua se Prodi ha voluto strafare.
Cosa intendo dire? Le rispondo con una citazione da un suo corsivo precedente:
"E in più di un caso il Bestiario l'ha invitato a usare il bastone con i suoi, a fare il dittatore democratico, a essere un caimano come sembrava lo fosse l'ex Berlusconi. Prodi non ha mai raccolto l'invito."
Il punto è che in Italia simili richiami coloriti a una leadership efficace vengono subito presi alla lettera, con le conseguenze che possiamo constatare. Qui da noi i politici scambiano l'autorevolezza con l'alzare la voce e il celodurismo, con le risposte sprezzanti e intimidatorie ai giornalisti. Scambiano l'efficacia con il fare da soli e il giocare d'anticipo mettendo tutti gli altri di fronte al fatto compiuto, a scapito persino degli alleati.
In qualche raro caso ci può anche stare, ma in linea di massima un bravo leader non ha bisogno di ricorrere a simili espedienti per farsi rispettare. Questo, naturalmente, non significa cedere all'atteggiamento opposto: il buonismo di facciata a tutti i costi, l'ipocrisia del "siamo tutti d'accordo" quando non lo si è. Significa soltanto adottare una linea di condotta decisa ma pacata, in cui si danno scadenze per le fasi di confronto e poi si prendono le decisioni.
Meglio pertanto non incoraggiare simili comportamenti.


Lorenzo Sandiford

sabato, febbraio 25, 2006

Sentenza choc sullo stupro: quasi altrettanto scioccanti i titoli sui giornali!

CONTROCANTO CORRETTIVO - QUASI IN TEMPO - DA QN, REPUBBLICA, SOLE24ORE

SENTENZA CHOC SULLO STUPRO: QUASI ALTRETTANTO SCIOCCANTI I TITOLI SUI GIORNALI!

Una frase della sentenza della Cassazione lascia davvero sconcertati. Ma anche sui giornali del 18 febbraio molti errori e assurdità. Un tentativo di riportare il buonsenso e un piccolo ragionamento sulla frase ‘un abuso (o stupro) è meno grave se la vittima è vergine’.


Un genuino riflesso condizionato legato alle distorte prassi giudiziarie del passato in materia di stupro? Oppure una vera e propria mancanza di logica? O forse tutte e due le cose insieme?
Non saprei dire quali siano le ragioni di alcune assurde affermazioni lette il 18 febbraio scorso nei giornali Quotidiano Nazionale e Repubblica (l’articolo del Sole24ore era invece ben centrato, a parte il titolo) a proposito della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha criticato le motivazioni alla base della decisione della Corte d’appello di Cagliari di non concedere le attenuanti in un caso di abuso sessuale nei confronti di una minorenne. E non ho né l’intenzione, né le competenze giuridiche per fare una seria valutazione di merito di tale sentenza. Cosa, d’altra parte, impossibile senza aver letto la sentenza della Corte d’appello a cui si contrapponeva la decisione della Cassazione.
Quello che mi interessa è soltanto evidenziare, per via indiretta, alcune assurdità e incongruenze concettuali di giornalisti, politici ed esperti, che mi sono saltate agli occhi alla prima lettura degli articoli. Per le quali, se non sono in errore, non c’è nemmeno bisogno di entrare nel merito della vicenda. (Del resto gli stessi giornali hanno provveduto il giorno successivo a correggere il tiro con interviste e servizi di chiarimento).
A giudicare dagli articoli e dai brani citati della sentenza l’elemento scatenante delle reazioni negative è stato un passo in cui la Corte di Cassazione ha sostenuto che nella valutazione degli effetti negativi di tale abuso sullo sviluppo sessuale della minorenne andava considerato il fatto che la ragazza già a partire dall’età di 13 anni aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età. Affermazione che però è stata poi tradotta dai titoli dei tre giornali (ma QN e Repubblica anche in passi di alcuni articoli) nella formula: stupro (o abuso) meno grave se la vittima non è vergine.
Premetto che a mio parere, da uomo della strada (o meglio, da uomo della poltrona davanti a tv e computer), c’è poco da concedere attenuanti in casi di abuso del genere: su una ragazza di 14 anni e per di più in rapporto di soggezione nei confronti del compagno della madre. Ma, ripeto, non posso né voglio parlare della sentenza, perché non conosco le regole giuridiche con cui si scelgono le pene per i reati, tra i minimi e i massimi previsti, e con cui si possono concedere attenuanti o dare aggravanti.
Ciò che mi preme è l’analisi di alcune affermazioni lette sui giornali.
La prima cosa che osservo è il seguente paradosso: è sicuramente più sbagliata e grave la frase della Corte di Cassazione della traduzione giornalistica. Cioè mi sembra peggio mettere in relazione gli effetti dell’abuso con la quantità di esperienze sessuali precedenti che con la verginità. L’errore della Corte è quando considera rilevanti, per valutare quanto gravi siano stati gli effetti dell’abuso, il numero e la varietà delle esperienze precedenti. A mio parere, infatti, non cambia pressoché nulla se una è stata già a letto con 3 o 20 uomini: soffre lo stesso. E’ qui che si rischia di passare dal concetto di reato contro la persona a reato contro la morale. Sarebbe invece meno irrazionale (anzi, come dirò più avanti, del tutto accettabile) sostenere che gli effetti sono più pesanti per una vergine che per una che ha già avuto esperienze sessuali. In questo caso mi sembra che ci sia un salto qualitativo chiaro e rilevante e che il concetto di reato contro la morale non c’entri nulla. Quindi la traduzione giornalistica ‘abuso meno grave se una non è vergine’ ha paradossalmente distorto, rendendola meno sbagliata, l’affermazione della Corte di cassazione. Al punto che, a una prima lettura, mi era incomprensibile il motivo dello scandalo.
Ma, passando alla seconda osservazione, è così assurda la frase: ‘un abuso sessuale è meno grave se la vittima non è vergine’? Io penso proprio di no. Infatti, pur ritenendo che si tratti di una differenza di gravità minima, credo che la differenza ci sia, almeno se nella gravità del reato è inclusa anche la peggiore ripercussione sulla vittima. Anzi penso che, in tal caso, tale frase costituisca addirittura un truismo.
Ecco il mio ragionamento terra terra.
Primo, dire che ‘un abuso sessuale (o stupro) è meno grave se la vittima non è vergine o senza esperienze sessuali’ non significa dire che, come ha sostenuto la Aspesi, "non è poi così grave". Un’azione può essere molto grave pur essendo meno grave di un’altra. Il significato di quella frase è identico alla frase: ‘un abuso sessuale (o stupro) è più grave se la vittima è vergine o senza esperienze sessuali’. Penso che in pochi avrebbero da eccepire di fronte a quest’ultima affermazione!
Secondo, credo che l’effetto di un abuso sessuale su una vergine o su una ragazza priva di esperienze sessuali (le due cose possono non coincidere) sia, a parità di altre condizioni, più pesante che su una donna con qualche esperienza sessuale alle spalle. (E credo che più o meno lo stesso discorso valga nel caso di un abuso sessuale su un ragazzo.) Mi sembra scioccamente sbrigativo dire, come hanno fatto alcuni commentatori, che uno stupro è uno stupro; allora le modalità non contano? se è minorenne non conta? Per analogia dovremmo dire sempre che un omicidio è un omicidio, punto e basta? Se avessi tre figlie di 15 anni, una senza esperienze, la seconda con un’esperienza sessuale di rilievo con l’attuale ragazzo, e la terza con tre esperienze sessuali e al momento single, in caso di abusi sessuali dalle identiche modalità a tutte e tre, sarei in partenza più preoccupato per la prima, anche se molto preoccupato anche per le altre due (tra le quali, invece, non vedrei grandi differenze). A meno che, per altri motivi, la prima fosse psicologicamente più solida delle altre due: in tal caso, difficile comunque da stabilire, potrei anche non avere una preoccupazione maggiore per lei.
Terzo, credo la differenza di impatto nell’un caso e nell’altro sia rilevante, a parità di altre condizioni, ma non so in che misura. Anche per questo non saprei dire se sia giusto tenerne conto nelle sentenze sugli abusi. In ogni caso credo che sia giusto affidarsi anche alla psicologia scientifica per una comprensione della questione.
Concludendo, chi ha fatto quei titoli di giornale, trasformando il rapporto tra livello di gravità del reato e promiscuità della vittima messo in evidenza dalla Cassazione in rapporto tra gravità e verginità, con l’intenzione di segnalarne lo scandalo, si è soltanto tirato la zappa sui piedi.


Lorenzo Sandiford

mercoledì, dicembre 07, 2005

Presentazione

IL TRUISTA
Note in margine ai "miei" giornali ed altri appunti.

 
Perché questo nome?
Me la caverò con una battuta. Per non firmarmi "signor di La Palisse".. ché, ho visto, ci aveva già pensato Tabucchi sull’Unità..
Vabbè, aggiungerò anche che c’è un riferimento, molto facile e superficiale, a "Difesa del senso comune" di George Edward Moore. E che, come sa chi è abituato alla politica e al giornalismo politico italiano, il "senso comune" e il ragionamento semplice, passo passo, può essere davvero utile, se non rivoluzionario, in certi casi e ambienti.
Diciamo che ci proverò. Ma non sarò sempre fedele a questa massima. Questo non è un blog "professionale" e non ci posso dedicare troppo tempo. E poi mi voglio divertire.

 
Perché e per chi lo scrivo?
Prima di tutto, per me. Per non abbandonare nel dimenticatoio alcune delle osservazioni, dubbi, critiche, proposte che mi vengono in mente leggendo-scorrendo i miei tre giornali "fissi": La Repubblica, QN/La Nazione e il Sole 24ore; e quelli che compro di tanto in tanto: dall’Unità al Corriere della Sera; senza trascurare il settimanale l’Espresso e altre testate cartacee, analogiche o digitali.
Ma anche per tentare di aprire un dialogo con chi legge gli stessi giornali e ha interessi simili ai miei. E’ evidente, infatti, che via via che questo blog si arricchirà, emergeranno alcuni temi di fondo su cui è focalizzata la mia attenzione: una sorta di repertorio delle mie specifiche fissazioni (che spero corrispondano a urgenze collettive reali) all’interno dei vasti campi della politica, i media e il giornalismo.
In ogni caso, avrò instaurato un dialogo immaginario con le testate e i giornalisti di riferimento. O, più semplicemente, uno sporadico e selettivo controcanto: inevitabilmente parassitario, ma costruttivo, perché all’insegna degli ideali della completezza, della correttezza e della trasparenza. Tanto importanti da perseguire quanto difficili da centrare. Soprattutto il primo, sul piano individuale.

 
Chi sono?
Lorenzo Sandiford, un giornalista pubblicista di Firenze, al momento pressoché disoccupato.
La scelta di esternare quest’ultimo dettaglio è solo per far capire che, visto che tra l’altro ho nel cassetto e in testa vari progetti editoriali e televisivi irrealizzabili a livello amatoriale, sono disponibile a qualunque offerta, anche modica :-)).

 
Nota di metodo
Non seguirò regole formali precise nella redazione dei testi (del tipo: lunghezze predefinite ecc.) e asseconderò i capricci dell’umore. Alcuni sostengono che quando si scrive sul web si debba essere più brevi e così via. Può darsi. A mio parere il bello di Internet è invece che si può scrivere come ci pare, perché non ci sono quasi restrizioni di spazio.
Non mi propongo neanche di scrivere con cadenze regolari. Aggiornerò il blog quando avrò tempo e voglia. Vedremo.
L'unico aspetto che merita forse un chiarimento è la titolazione. Data la mia incapacità di settare un'impaginazione personalizzata, il titolo sarà ripetuto sia nello spazio titoli predefinito che nello spazio testi. Questo, perché mi serve una titolazione composta da occhiello, titolo e sottotitolo. L'occhiello non sarà di tipo giornalistico e verrà utilizzato soltanto per classificare il genere di post, secondo varie categorie. Quali, ad esempio, "in tempo" versus "fuori tempo" (per distinguere gli interventi attuali da quelli vecchi o slegati dalla stretta attualità), "controcanto correttivo" versus "controcanto di rinforzo" ecc.
 
 
Avvertenze
Sarà superfluo, ma è bene dirlo esplicitamente, a scanso di equivoci. Questo non è un sito giornalistico in senso proprio, ma uno spazio di riflessione a partire dai giornali. Qui non si troverà nessuna notizia di prima mano né verifica delle fonti primarie. Le mie uniche fonti sono le testate a cui faccio riferimento; tutto il resto è libero e opinabile ragionamento. Siccome, però, è inevitabile in qualsiasi ragionamento riferirsi a fatti e informazioni, per non creare fraintendimenti a tale proposito, adotterò uno stile espositivo ricco di espressioni come "mi sembra", "se è vero che" e di punti interrogativi. Insomma, tutto il contrario delle regole di scrittura del giornalismo.
In secondo luogo, voglio sottolineare una conseguenza dell'impostazione scelta: finirò spesso per contrappormi e fare obiezioni proprio agli editorialisti che leggo con maggiore interesse. Non ci saranno solo note di dissenso, ma ovviamente il più delle volte sarà così, perché non ha molto senso ripetere (nel tentativo di diffondere ulteriormente) le cose giuste scritte da professionisti che hanno già un ampio uditorio. Quelle saranno date per scontate, salvo i rari casi in cui mi pare che possano essere utilmente integrate e rafforzate.

Lorenzo Sandiford